Accettazione e temerarietà nel romanzo di Myriam De Luca

È meglio conoscere subito una verità, anche se cruda, sulla propria persona, ma che possa riportare conseguentemente equilibrio interiore e pace all’esistenza oppure è meglio averla per tanto tempo (o per sempre) nascosta? Questo interrogativo di fondo lo abbiamo riscontrato di recente nel libro «Fai bei sogni» di Massimo Gramellini e nel film «Il figlio sospeso» del regista palermitano Egidio Termine. Seppur con una storia e con intrecci diversi lo stesso interrogativo finale si va ad imporre tra gli esiti concettuali del fluido romanzo «Via Paganini,7», libro d’esordio nel genere della narrativa da parte della scrittrice palermitana Myriam De Luca.
Un’opera prima, si sa, a volte può contenere delle ingestibili intemperanze o delle incontrollate passionalità in quello che è il flusso della scrittura, ma qui siamo in presenza di un’autrice abbastanza matura che traspone nella scrittura, con la dovuta accortezza e con una naturale eleganza, quei sentimenti e quei risvolti psicologici che affastellano le vicende della vita di ognuno di noi, vicende che qui però rivestono una specificità ed un’articolazione unica e non certamente comune. E per quella che è la particolare padronanza con cui la De Luca affronta e risolve taluni spaccati emozionali, ciò è sicuramente prova d’un personale vissuto incardinato tra amicizia e amore, sentimenti che richiedono maggiore elargizione allorquando capita di sentirne la mancanza nei propri riguardi. Il linguaggio è agile e moderno, e taluni segmenti di gradevole ironia diluiscono un “dramma” che, per la sua intensità, a tratti riesce inevitabilmente a catturare la partecipazione emotiva del lettore.
Viviana, la protagonista del romanzo, vive sin da adolescente non una dicotomia generazionale con i propri genitori, ma una vera e propria frattura affettiva il cui riflesso va a addirittura a contagiare e stravolgere quelli che sono i più elementari rapporti del vivere civile. E sta alla giovane, abbandonata ai suoi comprensibili smarrimenti, cercare di ritrovare con ogni mezzo sé stessa e quella identità che nessuno ha saputo mai darle, al fine di comprendere – se non altro – il suo effettivo ruolo nei confronti dei parenti più prossimi e della società in genere. La sua mente ed il suo corpo sono attraversati soltanto da tanta indifferenza e da tanta solitudine, ed ogni appiglio – perfino amoroso – sembra rivelarsi vacuo e inconsistente se alla base le fondamenta risultano ammalorate e prive di consistenza. Ma tra le righe del dinamico tessuto narrativo di questo romanzo che in buona sostanza vuole tra l’altro porgere una costruttiva testimonianza umana, oltre al progetto d’amore nei confronti del prossimo, un primario insegnamento da cogliere è quello di dovere rinascere ad ogni costo da ogni situazione negativa, e se gli eventi conseguenziali non porteranno mai ad eliminare il dolore, che almeno lo si sappia proficuamente ammansire e pilotare dentro. E, pertanto, i personaggi del romanzo e le ambientazioni potrebbero pur essere “altri”, quello che conta è saper cogliere i moti di costretta accettazione e d’impetuosa rivolta che pagina dopo pagina s’intervallano a volte con un fare generoso o temerario, fino al compimento d’una verità che alla fine sembra avere proprio un preciso indirizzo ed un numero civico.
Nicola Romano